17/11/10
Sagrada Família de Gaudí
Intersezione di pietra nel cuore del senza tempo
Maria Antonietta Crippa
Nel piccolo e prezioso libro Il gioco di forme della liturgia (Vormenspel der liturgie in lingua originale, tradotto in italiano come: La forma. Natura, cultura e liturgia nella vita umana, Milano 2000), l'architetto olandese e monaco benedettino Hans van der Laan (1904-91) rinviene nella liturgia cristiana l'espressione della più nobile contiguità tra fede e mondo. Individuati tre livelli della realtà di vita del credente - la natura, la cultura e la liturgia - egli dimostra che la fede cristiana abilita la razionalità umana a metterli in rapporto tra loro e a comprenderli entro un unico orizzonte di senso, tramite svolgimento di un pensiero analogico. Quest'ultimo, base della predicazione evangelica di Gesù, come attestano le molte parabole, e fondamento del pensiero dei Padri della Chiesa, consente a chi lo sperimenta di ascendere dalle forme naturali, tramite quelle culturali, alle forme liturgiche; tuttavia non secondo passaggi automatici.
La funzione intermediaria delle forme culturali esige, infatti, il responsabile sviluppo di una espressività umana, senza la quale "la produzione di forme liturgiche necessariamente languisce per mancanza del suo sostrato nutritivo", scrive van der Laan. Se dunque la fede cristiana offre la chiave ermeneutica per stabilire il senso della natura, della cultura, della liturgia e del mondo invisibile al quale essa apre, è ancora la fede a esigere una ricerca espressiva da parte del credente impegnato a dar forma alla sua vita e al suo habitat, ricerca possibile nella nostra società solo se si realizzano "oasi di un sano gioco di forme culturali, unico clima e ambiente in cui la liturgia può prosperare".
Un altro prezioso scritto, La festa della fede. Saggi di teologia liturgica del 1984, dell'allora cardinal Joseph Ratzinger, invita a cogliere il cuore della liturgia nell'azione di Dio in mezzo agli uomini, cui l'uomo corrisponde celebrandola come festa di un incontro di salvezza di potenza incomparabile, come festa della fede.
La recente consacrazione della basilica della Sagrada Familia a Barcellona, il 7 novembre 2010, da parte di Papa Benedetto XVI è stata in senso pieno una festa della fede per chi si trovava al suo interno, per chi era all'esterno e per chi la guardava in modovisione. Diverse comunità in Barcellona hanno vegliato in preghiera il giorno prima, perché tale consacrazione fosse segno evangelico per il maggior numero possibile di uomini. L'edificio, come è stato reso noto dai molti servizi giornalistici e televisivi, è stato ideato e iniziato da un geniale architetto catalano vissuto tra la seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento, Antoni Gaudí (1852-1926), continuato fino a oggi, fino a divenire fruibile come chiesa, per l'impegno di una grande folla di architetti, artisti, artigiani, muratori. Se le offerte libere che ne hanno permesso la realizzazione continueranno, esso potrà essere completato secondo l'ideazione del suo progettista e con nuovi contributi figurali, opportunamente subordinati all'unità generale. Tra la folla raccolta a Barcellona la gioia era palpabile, lo stupore illuminava gli sguardi protesi a osservare le possenti forme architettoniche e artistiche del monumento, evidenziate dai filmati che scorrevano sugli schermi e che consentivano di osservarne la mole esterna dall'alto e lo splendore, ricco di luci cangianti e di forme sorprendenti, dell'interno. I gesti della dedicazione, la celebrazione della liturgia eucaristica, le parole di Benedetto XVI, quelle del cardinale Martínez Sistach e dell'architetto Jordi Bonet, direttore del cantiere, i canti dei cori distribuiti nei settori a metà altezza, tutto concorreva a suscitare la percezione che la realtà terrena fosse in procinto di aprirsi verso il cielo, divenendo vestibolo, soglia dell'invisibile Chiesa dei beati, degli angeli, della Vergine, di Dio, in comunione con tutto il popolo cristiano della terra.
L'emozione sgorgava da una ragione semplice e profonda: da un senso religioso ravvivato dall'evento e dal contesto. Le intenzioni del grande architetto catalano diventavano evidenti, palpabili, condivise. "La liturgia cristiana - egli disse ai giovani architetti che gli facevano visita negli ultimi anni della vita - ci dà lezioni di estetica pura e delicatissima".
"Non ho letto niente di quel che dice Brehier, nelle summae, negli specula e nelle opere di simbolismo medievali. Ho appreso la liturgia viva seguendo il ciclo annuo della Chiesa con i quindici volumi spessi di Dom Guéranger"; "Quando il dottor Campins mi affidò il restauro della cattedrale di Maiorca, non andai a cercare le norme relative al mio lavoro nei trattati di liturgia, che a quel tempo cominciavano a essere pubblicati. Seguendo il metodo sperimentale, invece, trascorsi un anno osservando e annotando tutte le carenze che l'errata disposizione dell'arredo liturgico causava nel cerimoniale delle funzioni vescovili, privandole di significato e splendore"; "Il vangelo e san Paolo dicono che il senso dell'udito è quello della fede. Il senso della vista, quello della gloria, perché la gloria è plasticità (... ) Crediamo che spettino a noi la gloria di ciò che è buono, e i meriti che ognuno di noi, con il suo talento, si è guadagnato realizzando qualcosa di importante; in realtà la si deve a un'anima sconosciuta che prega per la riuscita di una persona più nota" (A. Gaudí, Idee per l'architettura, Milano 1995).
Il breve florilegio di pensieri dell'architetto catalano qui trascritto, dà ragione di una fede solida e semplice, coltivata in una costante attenzione e partecipazione alla liturgia, una fede che aveva investito il suo talento, anch'esso pazientemente coltivato, tradotto in cultura di costruttore e artista dalla singolare originalità espressiva che testimonia, con esemplarità unica fra le realizzazioni degli ultimi due secoli, la veridicità della procedura analogica del pensiero messa a fuoco da van der Laan.
Guardando la Sagrada Familia, infatti, standovi all'interno, si ricordano fenomeni e luoghi naturali come l'albero o il bosco, si coglie tuttavia anche l'espressione di una originale cultura artistica che li ha trasfigurati, si percepisce uno stretta parentela tra architettura e liturgia. Il pensiero corre di segno in segno, da quello naturale a quello culturale fino a quello liturgico, fusi nell'unico, solenne segno della chiesa di pietra, simbolo della Chiesa composta dalle pietre vive dei credenti.
Sappiamo che il progetto della cattedrale è l'asse portante di tutta la ricerca di Gaudí; tutte le sue opere più celebrate hanno visto infatti la luce all'interno dell'arco temporale nel quale egli è stato direttore di cantiere del tempio. La sua comprensione è quindi conditio sine qua non per interpretare l'intero itinerario artistico. Per questo la Sagrada Familia lancia all'uomo di oggi - ai costruttori, agli architetti e agli artisti in particolare - una sfida, inscritta nella sua forza simbolica e nella sua pregnanza testimoniale: in essa l'intero mondo visibile manifesta la propria natura di segno, il proprio essere un'unica, grande liturgia, un momento di evidente, tangibile intersezione del senza tempo con il tempo, come direbbe il poeta inglese Eliot.
(©L'Osservatore Romano - 18 novembre 2010)
A carne entre infinito e eterno
La carne tra infinito ed eterno
Gianfranco Ravasi Nell'arco dell'ultimo decennio sotto la guida e l'impulso del vescovo di Linz Ludwig Schwarz, la città e l'intera diocesi hanno intessuto un dialogo fecondo e molto variegato con l'arte contemporanea. Lo stimolo offerto dal concilio Vaticano ii, nel suo appello a una liturgia che coniugasse la verticalità del mistero con l'orizzontalità del coinvolgimento e della partecipazione vitale e culturale della comunità, ha trovato in nuove chiese, cappelle, battisteri, memoriali, altari, amboni, immagini, vie crucis, monumenti, portali, vetrate della diocesi di Linz la sua perfetta attuazione. Questo risultato, meravigliosamente illustrato dalla documentazione che ora seguirà, presenta un significato che va oltre i confini di questa comunità ecclesiale austriaca.
L'esperienza che ha nell'attuale vescovo di Linz l'artefice primario acquista, infatti, un valore esemplare per la Chiesa universale. Essa, in un certo senso, anticipa una scelta che Benedetto XVI ha voluto proporre in maniera incisiva, mediante l'intenso e appassionato appello che egli ha rivolto il 21 novembre 2009 ai quasi trecento artisti provenienti da tutto il mondo, convocati nella cornice mirabile della Cappella Sistina. A pittori, scultori, architetti, poeti, scrittori, musicisti, cantanti, registi, attori, scenografi e fotografi il Papa ha lanciato la sfida a un nuovo dialogo tra arte e fede sul modello di quanto è avvenuto per secoli e - possiamo aggiungere - di quanto è stato realizzato a Linz con la collaborazione di quella settantina di artisti le cui opere costituiscono appunto l'oggetto di questo catalogo.
Ora, la meta ideale di ogni artista, un po' come quella del credente, è cercare di "carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità". Così, già il 7 maggio 1964, Paolo vi nella stessa Cappella Sistina si rivolgeva agli artisti da lui convocati per ristabilire un'alleanza nuova tra l'ispirazione divina della fede e l'ispirazione creatrice dell'arte. Come confessavano sia il grande pittore catalano Joan Miró, sia Paul Klee, l'arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l'Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che "l'Arte è l'Inconnu, l'Ignoto, il Mistero". Si deve, tuttavia, riconoscere che da tempo l'alleanza tra fede e arte si è infranta.
L'arte ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade "laiche" della contemporaneità. Ha abbandonato la concezione secondo la quale l'opera artistica incarna una visione trascendente dell'essere, anzi, "crea un mondo" per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il primo Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con la ricerca di una costante epifania di bellezza e di mistero, come accadeva nel passato.
Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla musica dodecafonica e ai suoi sorprendenti risultati, oppure all'arido taglio della tela operato dal pittore Lucio Fontana che si trasformava, però, in "uno spiraglio per intravedere l'Assoluto". Ora spesso questo non accade più, perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell'arte a un messaggio, a una "verità", a una "bellezza". Il pittore Georges Braque, citato da Benedetto XVI nel suo discorso del 21 novembre 2009, in modo folgorante affermava, nel suo saggio Il giorno e la notte, che "l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". Ai nostri giorni l'arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull'abisso dell'Infinito, dell'Oltre, dell'Altro.
Di fronte a questa divaricazione tra la fede (o più genericamente la trascendenza) e l'arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto XVI ha voluto appunto riproporre, nelle attuali coordinate culturali, un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma molteplice che tale termine comporta e che ora va oltre architettura, pittura, scultura, letteratura, musica, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art, la fotografia e così via. E lo ha fatto sulla scia di un'altra memoria particolare: dieci anni prima, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II indirizzava, infatti, una sua Lettera agli artisti, anch'essa destinata a "confermare la sua stima e a contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa".
A questo punto, tenendo conto certo del presente testimoniato dall'opera della diocesi di Linz che vuole invertire la tendenza appena descritta, vorremmo solo gettare uno sguardo simbolico, non certo esaustivo, sul passato che sta alle nostre spalle. Desideriamo, infatti, anche attraverso le voci di tanti testimoni, riaffermare il legame spontaneo tra la fede e l'arte, così da rivelare la loro parentela segreta che le rende idealmente sorelle, proprio come è dimostrato dall'impegno profuso dal vescovo Schwarz in questa linea. Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia". Essa è stata, infatti, l'atlante iconografico per eccellenza, l'"immenso vocabolario" della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel. È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d'arte: "Noi siamo manifestatori, agli uomini che non conoscono la lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede".
Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d'Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta: "Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri". Questo incontro dell'arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale. Il famoso archeologo dell'Oriente cristiano, Guillaume de Jerphanion, aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia nell'attuale Turchia così: Voix des monuments. Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d'arte, di letteratura, di musica e persino di un certo cinema a noi vicino - si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade - diventa voce che ci conduce "all'etterno dal tempo", per usare un'icastica formula dantesca (Paradiso xxxi, 38).
Certo, anche nel passato secolare della storia cristiana non sono mancate le cesure e le censure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. Il pensiero corre all'iconoclasmo dell'viii secolo in Oriente o alla reticenza "ascetica" della Riforma protestante, che stenderà onde bianche aniconiche sulle pareti delle chiese ma che, per fortuna, farà subentrare la straordinaria potenza creatrice della musica (Bach è un nome che riassume tutti gli altri, pure grandi). Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell'arte anche in una certa teologia, timorosa di derive "idolatriche" e che perciò si è affidata solo alla speculazione e al linguaggio tecnico, spazzando via lo splendore dei simboli, delle immagini e delle narrazioni. D'altronde, è ben noto il monito biblico del Decalogo a "non farsi immagine alcuna" di Dio (Esodo, 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d'oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è, certo, necessaria. Ma si è andati oltre. Teologia e teologi, come si diceva, si sono non di rado votati esclusivamente alla riflessione sistematica, eliminando segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale.
In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del xii secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono "soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri "luoghi" teologici". Alla radice di questo c'è il cuore stesso del messaggio cristiano, l'Incarnazione. Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo - come afferma san Paolo - ha la sua eikôn, la sua "icona-immagine" perfetta (Colossesi, 1, 15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa nostra umanità l'"immagine e la somiglianza divina" (1, 26-27). Il monaco e teologo Teodoro Studita (viii-ix sec.) non esitava, seguendo la logica dell'Incarnazione, a giungere al paradosso per cui, "se l'arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato".
Ritorniamo, così, alla sostanza del nostro discorso, cioè alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell'incontro tra l'artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell'essere, a svelare l'epifania del mistero, a conquistare l'infinito e l'eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà. È ciò che monsignor Schwarz ha testimoniato in questi anni in modo efficace, invitando l'arte contemporanea a operare in questa direzione attraverso gli interventi negli spazi sacri e col ricorso ai grandi temi della spiritualità, della liturgia, della simbolica cristiana. Per questa via si confermava quanto lo scrittore Hermann Hesse dichiarava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione citata dallo stesso Benedetto XVI nel discorso agli artisti del 21 novembre 2009: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio".
(©L'Osservatore Romano - 17 novembre 2010)