17/11/10

A carne entre infinito e eterno


La carne tra infinito ed eterno
Gianfranco Ravasi

Nell'arco dell'ultimo decennio sotto la guida e l'impulso del vescovo di Linz Ludwig Schwarz, la città e l'intera diocesi hanno intessuto un dialogo fecondo e molto variegato con l'arte contemporanea. Lo stimolo offerto dal concilio Vaticano ii, nel suo appello a una liturgia che coniugasse la verticalità del mistero con l'orizzontalità del coinvolgimento e della partecipazione vitale e culturale della comunità, ha trovato in nuove chiese, cappelle, battisteri, memoriali, altari, amboni, immagini, vie crucis, monumenti, portali, vetrate della diocesi di Linz la sua perfetta attuazione. Questo risultato, meravigliosamente illustrato dalla documentazione che ora seguirà, presenta un significato che va oltre i confini di questa comunità ecclesiale austriaca.
L'esperienza che ha nell'attuale vescovo di Linz l'artefice primario acquista, infatti, un valore esemplare per la Chiesa universale. Essa, in un certo senso, anticipa una scelta che Benedetto XVI ha voluto proporre in maniera incisiva, mediante l'intenso e appassionato appello che egli ha rivolto il 21 novembre 2009 ai quasi trecento artisti provenienti da tutto il mondo, convocati nella cornice mirabile della Cappella Sistina. A pittori, scultori, architetti, poeti, scrittori, musicisti, cantanti, registi, attori, scenografi e fotografi il Papa ha lanciato la sfida a un nuovo dialogo tra arte e fede sul modello di quanto è avvenuto per secoli e - possiamo aggiungere - di quanto è stato realizzato a Linz con la collaborazione di quella settantina di artisti le cui opere costituiscono appunto l'oggetto di questo catalogo.
Ora, la meta ideale di ogni artista, un po' come quella del credente, è cercare di "carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità". Così, già il 7 maggio 1964, Paolo vi nella stessa Cappella Sistina si rivolgeva agli artisti da lui convocati per ristabilire un'alleanza nuova tra l'ispirazione divina della fede e l'ispirazione creatrice dell'arte. Come confessavano sia il grande pittore catalano Joan Miró, sia Paul Klee, l'arte non ha il compito di descrivere il visibile, ma di cogliere nel visibile l'Invisibile. Anche un poeta, Jules Laforgue, nei suoi Complaintes, proclamava che "l'Arte è l'Inconnu, l'Ignoto, il Mistero". Si deve, tuttavia, riconoscere che da tempo l'alleanza tra fede e arte si è infranta.
L'arte ha lasciato il tempio, ha relegato su uno scaffale polveroso le grandi narrazioni bibliche, i simboli, le figure, le parabole sacrali e si è avviata lungo le strade "laiche" della contemporaneità. Ha abbandonato la concezione secondo la quale l'opera artistica incarna una visione trascendente dell'essere, anzi, "crea un mondo" per usare le parole del filosofo Heidegger, e si è sostanzialmente dedicata a sperimentazioni di linguaggio, a complesse ricerche stilistiche, a elaborazioni autoreferenziali e persino a pure e semplici provocazioni. Queste vie non si protendono verso nessuna meta, a differenza di quei tentativi che il primo Novecento aveva esperito, apparentemente scardinando la grammatica estetica tradizionale, ma con la ricerca di una costante epifania di bellezza e di mistero, come accadeva nel passato.
Tanto per fare un esempio, si pensi solo alla musica dodecafonica e ai suoi sorprendenti risultati, oppure all'arido taglio della tela operato dal pittore Lucio Fontana che si trasformava, però, in "uno spiraglio per intravedere l'Assoluto". Ora spesso questo non accade più, perché si teme sempre che sia in agguato la dedizione funzionale e servile dell'arte a un messaggio, a una "verità", a una "bellezza". Il pittore Georges Braque, citato da Benedetto XVI nel suo discorso del 21 novembre 2009, in modo folgorante affermava, nel suo saggio Il giorno e la notte, che "l'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". Ai nostri giorni l'arte vuole ancora turbare, ma lo fa solo scandalizzando e provocando, non più inquietando le coscienze, le menti e i cuori, costringendoli ad affacciarsi sull'abisso dell'Infinito, dell'Oltre, dell'Altro.
Di fronte a questa divaricazione tra la fede (o più genericamente la trascendenza) e l'arte, divaricazione che non può essere colmata con il mero ricalco degli stili e delle espressioni di un passato glorioso, Benedetto XVI ha voluto appunto riproporre, nelle attuali coordinate culturali, un nuovo incontro con gli artisti, nella gamma molteplice che tale termine comporta e che ora va oltre architettura, pittura, scultura, letteratura, musica, comprendendo le nuovi arti come il cinema, il design, la video-art, la fotografia e così via. E lo ha fatto sulla scia di un'altra memoria particolare: dieci anni prima, il giorno di Pasqua del 1999, Giovanni Paolo II indirizzava, infatti, una sua Lettera agli artisti, anch'essa destinata a "confermare la sua stima e a contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa".
A questo punto, tenendo conto certo del presente testimoniato dall'opera della diocesi di Linz che vuole invertire la tendenza appena descritta, vorremmo solo gettare uno sguardo simbolico, non certo esaustivo, sul passato che sta alle nostre spalle. Desideriamo, infatti, anche attraverso le voci di tanti testimoni, riaffermare il legame spontaneo tra la fede e l'arte, così da rivelare la loro parentela segreta che le rende idealmente sorelle, proprio come è dimostrato dall'impegno profuso dal vescovo Schwarz in questa linea. Per usare le parole di un artista che ha testimoniato sempre questo incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, "i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia". Essa è stata, infatti, l'atlante iconografico per eccellenza, l'"immenso vocabolario" della cultura, come la definiva il poeta francese Paul Claudel. È significativa, perciò, la professione di principio che facevano i pittori senesi del Trecento nei loro Statuti d'arte: "Noi siamo manifestatori, agli uomini che non conoscono la lettura, delle cose miracolose operate per virtù della fede".
Era talmente stretto questo legame che già sei secoli prima, il cantore delle immagini della Chiesa d'Oriente, san Giovanni Damasceno, giungeva al punto di avanzare questa proposta: "Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei quadri sacri". Questo incontro dell'arte con la liturgia e la spiritualità ha generato quello straordinario patrimonio che ha abbellito secoli e secoli di storia occidentale. Il famoso archeologo dell'Oriente cristiano, Guillaume de Jerphanion, aveva intitolato la sua trilogia sulle chiese rupestri della Cappadocia nell'attuale Turchia così: Voix des monuments. Sì, non solo quegli affreschi e quelle architetture mirabili, ma ogni espressione d'arte, di letteratura, di musica e persino di un certo cinema a noi vicino - si pensi a Bresson, Dreyer, Bergman, tanto per evocare una celebre triade - diventa voce che ci conduce "all'etterno dal tempo", per usare un'icastica formula dantesca (Paradiso xxxi, 38).
Certo, anche nel passato secolare della storia cristiana non sono mancate le cesure e le censure che hanno spezzato quel legame e hanno sostituito il silenzio a quelle voci. Il pensiero corre all'iconoclasmo dell'viii secolo in Oriente o alla reticenza "ascetica" della Riforma protestante, che stenderà onde bianche aniconiche sulle pareti delle chiese ma che, per fortuna, farà subentrare la straordinaria potenza creatrice della musica (Bach è un nome che riassume tutti gli altri, pure grandi). Si può intravedere questo sospetto nei confronti dell'arte anche in una certa teologia, timorosa di derive "idolatriche" e che perciò si è affidata solo alla speculazione e al linguaggio tecnico, spazzando via lo splendore dei simboli, delle immagini e delle narrazioni. D'altronde, è ben noto il monito biblico del Decalogo a "non farsi immagine alcuna" di Dio (Esodo, 20, 4), così da evitare la prostrazione davanti al vitello d'oro, materializzazione del divino. Questa catarsi dal materialismo e dal realismo sacrale è, certo, necessaria. Ma si è andati oltre. Teologia e teologi, come si diceva, si sono non di rado votati esclusivamente alla riflessione sistematica, eliminando segni e simboli, considerati come una nebbia rispetto al cielo cristallino del pensiero e della logica formale.
In realtà, il linguaggio simbolico tiene compatta in sé la verità e la sua espressione. È significativo che un teologo del rilievo di Marie-Dominique Chenu ribadisse, nella sua Teologia del xii secolo, la necessità di riservare attenzione alle opere artistiche, sia letterarie, sia plastiche, sia figurative, perché esse non sono "soltanto illustrazioni estetiche, ma dei veri "luoghi" teologici". Alla radice di questo c'è il cuore stesso del messaggio cristiano, l'Incarnazione. Essa, infatti, rende visibile Dio che in Cristo - come afferma san Paolo - ha la sua eikôn, la sua "icona-immagine" perfetta (Colossesi, 1, 15). Anzi, la Genesi riconosceva nella stessa nostra umanità l'"immagine e la somiglianza divina" (1, 26-27). Il monaco e teologo Teodoro Studita (viii-ix sec.) non esitava, seguendo la logica dell'Incarnazione, a giungere al paradosso per cui, "se l'arte non potesse rappresentare Cristo, vorrebbe dire che il Verbo non si è incarnato".
Ritorniamo, così, alla sostanza del nostro discorso, cioè alla convinzione della possibilità, o meglio, della necessità dell'incontro tra l'artista e la trascendenza, tra la bellezza e la fede, strutturalmente legate tra loro da una consonanza naturale, perché tese a esprimere il senso ultimo dell'essere, a svelare l'epifania del mistero, a conquistare l'infinito e l'eterno, a varcare il velo della superficie per intuire il segreto ultimo della realtà. È ciò che monsignor Schwarz ha testimoniato in questi anni in modo efficace, invitando l'arte contemporanea a operare in questa direzione attraverso gli interventi negli spazi sacri e col ricorso ai grandi temi della spiritualità, della liturgia, della simbolica cristiana. Per questa via si confermava quanto lo scrittore Hermann Hesse dichiarava in modo esplicito nel suo saggio su Klein e Wagner, ricorrendo a questa definizione citata dallo stesso Benedetto XVI nel discorso agli artisti del 21 novembre 2009: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio".


(©L'Osservatore Romano - 17 novembre 2010)

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